Gli inizi sono spesso problematici. Non si sa mai da dove cominciare, e iniziare a dire è sempre un affare difficoltoso. A volte basta lasciar parlare il silenzio, altre invece è necessario metterci la voce. Argomentare, spiegare, chiarire. E poi ci sono volte in cui sarebbe meglio lasciar parlare ricordi, suoni, immagini. Questa è una di quelle volte in cui bisognerebbe cominciare dalla musica. Meglio: dalla poesia, ma musicata. Perché, benché sia indicato come un letterato poliedrico e dalle mille abilità, l’arte di Salvatore di Giacomo (1860 – 1934) è universalmente riconosciuta nella canzone. Quella canzone napoletana popolare e spontanea che lui per primo raddensò di significati, mescolando vecchi temi e nuove rivelazioni, che ispirarono i pentagrammi virtuosi di Mario Costa e altri artisti che musicarono le sue poesie.
A ben guardare, tutto inizia, prima ancora che dalla canzone, dalla lingua. Il dialetto napoletano già mistificato ma ancora caldo, veemente, ancor più vivo dopo la recente, sofferta unificazione che avrebbe voluto (senza mai riuscire: il tentativo è tuttora in corso) uniformare, appiattire, livellare. Quel dialetto che è musica, prima ancora d’essere messo in musica, già cantato dalle corali di donne che s’alzano dai vicoli, dalle voci bianche degli scugnizzi ancor bambini, dai versi baritonali e cavernosi degli uomini al lavoro.
Da questa Napoli sonora, figlia di un’unità d’Italia non ancora compresa né accettata, animata da spasmi come quelli di un corpo che si vede improvvisamente in trappola, nasce il genio di Salvatore di Giacomo. Poeta, drammaturgo, giornalista, bibliotecario, artista eclettico e lunatico, le sue opere velate di una malinconia esistenziale che dalla città sgorga ed alla città ritorna, in un circolo perpetuo di morte e rinascita.
La morte Salvatore di Giacomo la conobbe alla facoltà di Medicina, dove s’era iscritto su desiderio del padre dottore. La vista di un corpo smembrato, aperto, profanato durante un’autopsia dimostrativa, colpì fortemente la sua sensibilità poetica e filantropa, provocandogli un senso di ineluttabile angoscia. Fuggì dall’aula, e non vi fece mai più ritorno, rinunciando per sempre alla carriera medica. Si dedicò invece alla scrittura, e iniziò a collaborare (1886) con i quotidiani locali (Corriere del Mattino, Corriere di Napoli, Gazzetta) curando prevalentemente le pagine culturali.
“Scrivere gli piaceva, ma al giornale non era a suo agio. Le regole e le rigide gerarchie redazionali non s’addicevano alla sua natura ispirata, non gli permettevano di esprimere al meglio il suo estro poetico“.
Giuliana Gugliotti Paolo Maurensig ha scritto: “Sono solo un appassionato, un melomane. La musica è la mia consolazione. Quest’arte […] assomiglia all’idea che mi sono fatto della vita”. Sostituite la parola “letteratura” alla parola “musica” e avrete una esaustiva descrizione di me. Leggi altri articoli dello stesso autore… |
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