Irriverente, dissacrante, politicamente scorretto. Ma anche: intenso, nostalgico, malinconico, amaro. Tutto questo è Barney Panofsky, alias Mordecai Richler, scrittore canadese (1931 – 2001) che con “La versione di Barney” – da molti ritenuto un romanzo fortemente autobiografico – si consacra come membro dell’Olimpo dei più pregiati scrittori di lingua inglese, diventando – in Italia ma non solo – un vero e proprio caso editoriale senza precedenti.
Quasi venerato negli anni dal Foglio di Giuliano Ferrara, che gli ha dedicato svariati articoli a settimana, ergendo la figura di Barney Panofsky a vessillo della propria linea editoriale politically incorrect, fino a trasformarlo in un vero e proprio caso letterario da oltre 100.000 copie vendute.
“La versione di Barney” è in realtà molto più che un manifesto irriverente nei confronti della cultura occidentale.
Barney Panofsky, ebreo canadese arricchitosi grazie alle scadenti produzioni televisive della sua azienda, dall’evocativo nome di “Totally Unnecessary Production”, fortino da cui l’intollerante, rozzo e razzista Barney si diverte a scagliare invettive contro nemici personali e intere classi sociali, arrivato alla soglia della terza età decide, in corrispondenza dell’uscita del libro-rivelazione di Terry Mc Iver, suo ex-collega e amico, di raccontare la propria versione sui terribili fatti che lo videro coinvolto, e poi assolto, dall’accusa di omicidio di un suo caro amico, evento su cui Mc Iver pretende di sapere la verità.
La narrazione, nata da un rigurgito d’orgoglio dell’ormai vecchio Panofsky, lascia ben presto cadere il pretesto dell’arringa, per addentrarsi in nostalgiche rivendicazioni di un vecchio ormai solo e inasprito dalla vita, affetto da una terribile malattia (l’Alzheimer) che, lentamente, lo porta a dimenticare il passato: dalla nebbia della malattia e dell’alcool emergono a un tratto una serie di ricordi, episodi sconnessi che solo alla fine della narrazione vanno a trovare ognuno una precisa collocazione nel perfetto mosaico costruito dall’autore, e attraverso i quali è possibile ripercorrere tutta l’assurda, sconsiderata vicenda di Barney Panofsky. Dal matrimonio di “convenienza” con la giovane Clara, artista squilibrata, ossessionata dalle proprie origini ebree – che tenta di nascondere – assurta a postuma gloria in seguito alla morte per suicidio, che la trasforma (paradossalmente) in un’eroina femminista; al breve, ma denso periodo di convivenza con la sua seconda moglie, la Seconda Signora Panofsky, talmente odiata da non meritare di essere ricordata nemmeno col suo nome; al matrimonio – inizialmente felice – con Miriam, l’amore vero che darà a Barney tre figli e svariati attimi di intensa felicità, ma non la gioia di invecchiare insieme.
Barney decide di raccontare la propria “versione”, ma quello che alla fine ne esce è un racconto denso e commosso di vita, in cui giudicare i fatti così filtrati dalla visione lacunosa del protagonista/narratore diventa impossibile; piuttosto, si ascolta echeggiare l’ultimo grido di un uomo che sente avvicinarsi la fine della propria coscienza di sé, della propria identità così corrosa dalla perdita di memoria, e chiede disperatamente di non essere dimenticato.
Leggendo tra le righe dell’insofferente fanatismo di Barney Panofsky si può cogliere molto di più che la sterile critica a una società ormai considerata marcia: vi si legge l’amarezza, il rimpianto per la propria vita sciupata in nome di falsi valori, la voglia di riscatto e il desiderio irrealizzabile di poter cancellare il passato. Dietro le taglienti, irremovibili, invettive scagliate contro tutto e tutti emerge un altro Barney, che si colloca accanto, forse in fondo, a quello che molti ricordano come un simpatico, inappagabile brontolone: un vecchio, ormai stanco, consumato dai suoi stessi errori, che vive macerandosi nell’acredine dei rimorsi e nel bruciore dolciastro dei ricordi, incapace di uscire da un’empasse in cui la sua malattia – e prima di tutto la sua incapacità di cambiare – lo relega, e con cui si ritrova ora, nella consapevolezza della vecchiaia che gli pesa sulle spalle, a dover fare i conti.
Barney Panofsky, l’irriverente e l’opportunista, l’alcolista e l’imbroglione, è in realtà un uomo incapace di reagire a se stesso, indegno (a parer suo) della propria vita per non essere stato in grado di imprimerle una svolta. Ma, in questo senso, Barney incarna allo stesso tempo la natura del vero artista, che mai programma la propria esistenza all’interno di schemi preordinati, ma, al contrario, si lascia sempre trasportare dal flusso degli eventi, tralasciando di indagare l’essenza del bene e del male, del giusto o sbagliato, semplicemente vivendo, come unica occupazione per cui valga la pena di essere su questo mondo. Barney è prima di tutto un artista di vita, e la sua vita è un’opera d’arte esemplare, stupendamente imperfetta, della cangiante corruttibilità della natura umana, codarda e inafferrabile, primariamente dedita all’autoconservazione, spinta a seguire i propri impulsi, per poi pentirsi di non essere arrivata fino in fondo, e, allo stesso tempo, di non poter più redimersi totalmente.
Una vita che alla fine lo porta a non trovarsi nient’altro in mano, non una famiglia, non l’amore della sua vita, rubatogli dalla sua stessa disattenzione, non i figli, con cui non riesce a instaurare un rapporto empaticamente affettivo; non il successo personale – che in questo caso non coincide con quello lavorativo, che Barney possiede, ma che disprezza profondamente perché fa leva, a suo parere, sull’imbroglio e sull’assoluta mancanza di pensiero critico della gente. Forse gli resta qualche amico sparuto, ma non l’amico vero, Boogie, l’artista sregolato e geniale, incapace di portare a compimento le sue opere, dalla cui scomparsa Barney si sente abbandonato e personalmente tradito.
Nient’altro si ritrova in mano, Barney Panofsky, se non una bottiglia di Macallan e un sigaro Montecristo. E la storia della propria vita, che, ormai passata, non può far altro che raccontare, per consegnare ai posteri la propria versione dei fatti, “La versione di Barney”.
Giuliana Gugliotti Paolo Maurensig ha scritto: “Sono solo un appassionato, un melomane. La musica è la mia consolazione. Quest’arte […] assomiglia all’idea che mi sono fatto della vita”. Sostituite la parola “letteratura” alla parola “musica” e avrete una esaustiva descrizione di me. Leggi altri articoli dello stesso autore… |
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