“Produzioni dal basso”, una piattaforma internet indipendente, orizzontale e gratuita, che dà spazio a chi desidera proporre un proprio progetto editoriale, sostiene il nuovo libro di Salvatore Tofano “Scampia. La leggenda della Vela che non voleva morire e altre storie”, edito da Marotta & Cafiero.
Il sistema delle produzioni dal basso è un metodo innovativo di pubblicazione editoriale, che prevede una raccolta di fondi e finanziamenti attraverso una sottoscrizione popolare per la realizzazione del progetto, affinché l’autore possa valutare, a priori, l’interesse potenziale che può attirare la sua proposta e, attraverso il contributo dei potenziali lettori, coprire le spese per la produzione.
“Scampia. La leggenda della Vela che non voleva morire e altre storie” si compone di diciotto racconti, più un prologo: una breve raccolta di “short stories”, sospese tra cronaca e invenzione letteraria, che, attingendo al genere gotico e fantastico, e senza disdegnare una sottile vena di umorismo, vogliono narrare di una Scampia poco presente nei mass media e che pure esiste; la Scampia del volontariato, delle associazioni, della gente per bene; la Scampia dei “penultimi”. Personaggi, contesti ed eventi reali, ma anche immaginari, verosimili, fantasmagorici, che interagiscono senza sosta, costruendo una realtà ricca, complessa, finanche contraddittoria, spesso sfuggente, ma per questo piena di vita e di senso.
Napoli è una città di mare, la città di mare per eccellenza. Ma il mare è una sirena pigra, che si ferma in riva e aspetta. Non si avventura all’interno della città, nei suoi meandri, nell’hinterland. Il mare a Napoli bagna Posillipo, Mergellina, S. Lucia, non bagna Scampia.
Ecco allora che Colino, quando a scuola gli chiedono: “Qual è il contrario di democrazia?”, risponde: “Mare!…”. Lo scettico Tonino Esposito, che durante il carnevale del Gridas è colto da malore e al suo risveglio si ritrova privo della parola, attribuendo la disavventura alla maschera carnevalesca di S. Ghetto Martire, contro la quale si era espresso in termini negativi, le chiede, quasi fosse un santo vero, di perdonarlo e fargli la grazia di presta guarigione. Coincidenza o meno, l’Esposito riacquista davvero la parola e qualcuno grida al miracolo. Un certo Capece, anche nei rari momenti di lucidità, quando non puzza di alcool, continua a giurare e stra-giurare che, un giorno, mentre era sull’R5, il bus che trasporta i tossici, questi si è alzato in volo come un aereo e lui dal finestrino ha visto i palazzi di sotto.
Tra i resti dell’antica cisterna romana, che insistono a pochi metri dall’incrocio tra via Labriola e via Galimberti, si annida una sorta di “non morto”, che si rende colpevole di efferati crimini. Ma soprattutto c’è la vela, che non accetta di fare da capro espiatorio, non ritenendosi la vera causa del degrado del quartiere, e si ribella, vomitando il proprio odio su quanti vogliono la sua demolizione.
Prendono così corpo, tra le pagine scritte, le difficoltà, le speranze, le inquietudini, i timori, le aspirazioni che connotano l’esperienza nello spazio vissuto dall’autore. Viene messo in scena un processo di identificazione molto forte, ricostruendo e dando sostanza a quell’apparato simbolico, positivo o negativo che sia, con cui gli abitanti del quartiere possono definire l’appartenenza al territorio. E tra i simboli del quartiere ci sono i “fantasmi”, in qualche misura una rappresentazione metaforica dei cosiddetti “penultimi”: ovvero, non tanto gli appartenenti al cosiddetto sottoproletariato urbano, ma tutti coloro che vedono il loro potenziale intellettivo, culturale, relazionale svilito da un contesto avaro di opportunità socioeconomiche. Persone con un titolo di studio, competenze certificate, abilità interessanti, valori indiscutibili, si confrontano con un mondo inospitale che li costringe ad una vita di “silenziosa disperazione”.
La voce narrante è quella di una “persona” che non si riconosce tra gli ultimi degli ultimi, come di norma sono visti nell’immaginario mediatico gli abitanti di Scampia, e che vorrebbe essere considerata per quella che è: una persona normale, libera dallo stigma che investe il quartiere, e che, ovviamente, vorrebbe che si guardasse a Scampia nella sua complessità, superando ogni pregiudizio.
Redazione La napoletanità è uno stato dell’anima, un modo di intendere la vita, di ricordare, di amare, un’attitudine allo stare al mondo in modo diverso dagli altri. La napoletanità non è un pregio e non è un difetto: è essere “diversi” dagli altri, in tutto. Ecco noi ci sentiamo così. (definizione liberamente tratta da uno scritto di: Valentino Di Giacomo napoletano, classe 1982, redattore del quotidiano Il Mattino di Napoli) Leggi altri articoli dello stesso autore… |
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