Creatività è la parola d’ordine. Per essere artisti non serve altro. Non eccentricità – quella semmai è diretta conseguenza della creatività. Non esperienza, perché basta l’immaginazione; non immaginazione, perché gli spunti li offre l’esperienza. Creatività allo stato puro, questo serve. Mettere insieme i pezzi, una serie di accidenti casuali in un’opera finita. Giocare con la vita. Dare vita al nuovo. Bandire paure e vergogne, ritrovare lo spirito di un infanzia beata in cui non si ha memoria né aspirazione.
Lo sa bene Paolo Sorrentino. La sua è una creatività vulcanica, grezza. Primordiale. Eclettica, come dovrebbe essere ogni creatività. Un’esplosione di fuochi d’artificio, improvvisa e accecante, che lascia nell’aria solo un’impressione, un’orda di sensazioni piuttosto che un’impronta definitiva. Ha il carattere della precarietà, dell’instabilità gravida di intuizioni, immagini sfuocate che rimandano a un altrove. E il passo dalle immagini alle parole si fa breve, e da regista basta poco a trasformarsi in scrittore. Conservando intatta la potenza ispiratrice di certe visioni.
Paolo Sorrentino, nato e cresciuto al Vomero, fortino collinare della benestante borghesia partenopea, ai cui piedi si stende lasciva l’altra Napoli, quella dei quartieri popolari e dei vicoli angusti. Quella caotica e indolente, oggi come negli anni Settanta, cocainomane e depravata, affamata e poliedrica, che ha ispirato l’opera di Sorrentino. Una carriera fulminea, la sua, che in pochi anni l’ha proiettato dall’ombra della cinematografia locale all’abbagliante luccichio dei riflettori dell’acclamato Festival di Cannes, fino all’Oscar del 2014 per il miglior film straniero, consacrandolo agli occhi della critica come regista di fama internazionale. Appassionato di musica e letteratura sin dall’adolescenza e rimasto orfano di entrambi i genitori – morti accidentalmente quando l’artista aveva solo diciassette anni – a venticinque anni Paolo abbandona gli studi di Economia per buttarsi a capofitto nel cinema. Una scelta che risponde a un istinto, un’esigenza viscerale che nasce dai battiti sordi del tamburo della creatività che gli si agita in corpo. Paolo ne asseconda il ritmo, armonizza con cura immagini e suoni e parole in storie scarne, evocative, suadenti. Il successo lo premia per la sua originalità. Ma la creatività di Paolo non si ferma alla pellicola: il sogno di diventare scrittore, coltivato sin dall’adolescenza, trova la spinta per venire alla luce forse proprio grazie ai trionfi cinematografici. Un artista vero ha bisogno di cambiamenti; la scrittura lo chiama, Paolo sceglie di mettersi alla prova su un terreno quasi completamente sconosciuto.
E lo fa recuperando dal “cascione” delle sue tematiche preferite, che sempre ruotano intorno alla generazione degli anni Settanta, quella del padre perduto prematuramente con cui l’artista sembra talvolta voler instaurare un dialogo muto e postdatato, il personaggio di Tony Pagoda, un po’ Tony Servillo – amico e attore prediletto per i suoi film – un po’ Tony Pisapia, già tratteggiato ne “L’uomo in più” e interpretato proprio da Servillo. Un personaggio che è l’incarnazione esagerata del vizio, ma che nasconde anche una profonda, acutamente dolorosa umanità.
Il passaggio dalle immagini alle parole non rende piena giustizia all’estro di Sorrentino, che si apprezza maggiormente nelle vesti di regista; eppure la sua scrittura conserva in parte quella forza evocatrice di immagini e situazioni che è raro ritrovare anche in scrittori più abili e affermati. “Hanno tutti ragione” è un parto, veloce e riuscito, di un uomo la cui arte respinge qualunque etichetta, ma non per questo si sfilaccia in frammenti sconnessi, ruotando anzi intorno al saldo perno di temi che sono centrali nella sua opera. Paolo le chiama ossessioni; in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera dichiarò, riferendosi alla sua attività di regista: “Mantenere l’attenzione per due-tre anni su uno stesso tema è qualcosa che va oltre la passione, l’interesse, la curiosità. Deve inevitabilmente degradare nell’ossessione. E quindi anche in una forma di ottusità. Sono molto contento di riuscire a farlo, perché quando ero ragazzo pensavo che il mio peggior problema per fare qualcosa nella vita fosse che ero discontinuo, invece ho scoperto che sono esattamente l’opposto: ho una grande capacità di essere interessato a una cosa in maniera continuativa e ottusa.“.
Parla di fissazione e ottusità, Paolo. Io preferisco citare Milan Kundera, quando ci dice che la vita di ognuno ruota bene o male sempre intorno alle stesse idee, come stelle fisse in un firmamento sovraccarico, punti cardinali verso cui ognuno sceglie di dirottare la propria esistenza. A questo motivo dominante ciascuno: “[…] ritorna, lo ripete, lo varia, lo sviluppa, lo traspone, come fa il compositore con i temi della sua sonata.“.
Rispondendo a un’esigenza intrinseca di bellezza. Ebbene, l’artista è colui che, profondamente legato ai temi che gli sono cari, vi ritorna ogni volta cercando di eviscerarli in modi nuovi, con nuovi strumenti e nuove voci. Dalla pellicola alla carta stampata, mantenendo intatti gli echi interiori, l’emotività, la personale visione del mondo. Potremmo dire: fissità dei fini e discontinuità dei mezzi. In una parola: creatività.
Questo fa di un uomo ispirato un artista a tutto tondo. E Paolo Sorrentino è sulla buona strada.
Giuliana Gugliotti Paolo Maurensig ha scritto: “Sono solo un appassionato, un melomane. La musica è la mia consolazione. Quest’arte […] assomiglia all’idea che mi sono fatto della vita”. Sostituite la parola “letteratura” alla parola “musica” e avrete una esaustiva descrizione di me. Leggi altri articoli dello stesso autore… |
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