Quel lunedì 27 agosto del 1973, l’estate fu interrotta dalla pioggia e gli italiani si preparavano al controesodo ed alle partenze più o meno intelligenti. In politica il presidente Rumor e il suo governo balneare (l’esecutivo era nato con un mandato a breve termine, di transizione, una “pausa estiva” insomma, dalle tensioni politiche molto aspre all’interno della maggioranza parlamentare), tornavano a riunirsi sui soliti temi del già serrato dibattito politico: occupazione, pensioni, costo della vita e l’immancabile “Questione Meridionale”. Il presidente della Repubblica dell’epoca era Giovanni Leone, il presidente della Camera era Sandro Pertini e Aldo Moro era l’allora ministro degli “Esteri”. Nel frattempo il resto del mondo era inchiodato davanti ai telegiornali a causa di una 60ina di svedesi ostaggio di delinquenti in una banca per circa 130 ore (ma si sa, da noi gli “esteri” avevano ed hanno lo stesso interesse del gossip): ne usciranno, poi, difendendo i rapinatori e nascerà la cosiddetta “sindrome di Stoccolma”. In Italia si stava preparando la stagione del terrorismo e proprio quel giorno una “virgola” mise in ginocchio Napoli.
Il vibrione del colera (Vibrio cholerae), un batterio denominato così, in latino, a causa della sua “forma a virgola” parrebbe che iniziò la sua marcia su Napoli, partendo da un vicolo del paese vesuviano di Torre del Greco. Da una famiglia di marinai e “forse” a causa di una partita di cozze provenienti dalla Tunisia o per un residuo dell’epidemia di quella che l’anno prima aveva sconvolto il porto di Odessa.
I morti furono dodici, ventiquattro, quarantotto, chissà, un giallo. Così come rimase un giallo la presenza del colera nelle cozze “nostrane”, sequestrate a quintali, e dai cui esami non risultò mai la presenza del vibrione. I ricoverati, al termine dell’epidemia furono 911, e un elenco “preciso” dei decessi, ad oggi, non è noto. Ma in ogni caso si trattò di cifre ben diverse dai 13mila falcidiati dalle epidemia di colera del secolo precedente e che fecero tra le atre una vittima illustre: Giacomo Leopardi.
Fu così che il 1973 divenne un “annus horribilis” per la città di Napoli, l’anno in cui la popolazione fu sconvolta da quella tragica epidemia di colera e infestata dalla paura. La capitale del Mezzogiorno si ritrovò assolutamente impreparata all’emergenza e, tra estenuanti code per i vaccini e precauzioni varie – a quasi cinquant’anni di distanza la puzza della creolina e dei disinfettanti brucia ancora nel naso e nei ricordi di chi ha vissuto quel periodo – 911 furono i ricoveri, 127 i casi accertati, 10mila i portatori sani. Anche se, ad oggi, è ancora impossibile ricavare un numero certo dei decessi, le vittime ci furono, così come il panico, l’isolamento, le discriminazioni, per non parlare della caccia al vibrione, che si trasformò in una vera e propria “caccia alle streghe”, scatenatasi tra le equipe mediche e i mass media.
L’economia cittadina subì un duro colpo: furono vietate le cozze, ma furono banditi anche i fichi perché visitabili dalle mosche e quindi vettori di altre possibili infezioni. I pesci poi non venivano comprati perché colpevoli di “abitare” lo spesso mare delle cozze e molte attività subirono un duro stop. A Santa Lucia e al Pallonetto che “vivevano” di mitilicoltura e di piccola pesca, ci fu la rivolta dei “luciani” contro l’amministrazione pubblica rea di voler asportare le cozze.
Si vietò l’acqua delle “mummare” di terracotta. Al Chiatamone, la fonte storica di quest’acqua sulfurea (donata dal re spagnolo al popolo di Napoli) fu chiusa per paura che le falde acquifere fossero inquinate e che le “mummarelle” di terracotta non fossero garanzia di igiene. Cosicché anche per l’acqua “suffregna” così come per le cozze, un’attività potremmo dire “secolare” si estinse nel giro di pochi giorni.
Alfonso Zarone, l’allora medico legale incaricato dal tribunale di effettuare le analisi per rintracciare il vibrione responsabile dell’epidemia, dichiarò a tal proposito che “all’epoca si accettava una concentrazione di 4 colibatteri per grammo di cozza. Io, affermò il medico, dovetti constatare che nelle cozze napoletane i colibatteri per grammo di cozza erano 400mila. La cosa paradossale era che le cozze erano un concentrato di colibatteri, a causa dell’inquinamento del mare, tale da impedire di sopravvivere allo stesso vibrione del colera. Insomma, il colera c’era, ma il famigerato vibrione non fu mai trovato”.
Fu, forse, proprio a causa di questa mancanza di informazioni che il dito e la penna dei giornalisti, di certo poco imparziali e offuscati dai pregiudizi, iniziò a rivolgersi contro i cittadini di Napoli, definiti (ieri come oggi) sporchi, incivili, incapaci di mantenere pulita e vivibile la propria città. Sulla città si abbatté uno stereotipo che aleggiava su di essa e su tutto il Meridione sin dal 1861, anno dell’unificazione d’Italia, quello di città e comunità sporche, laide, in mano alla delinquenza e dove la legge non veniva rispettata da nessuno, a cominciare dai politici. Insomma su Napoli e sui Napoletani si abbatterono una tale quantità di pregiudizi che produssero nel tempo danni molto più nefasti del colera stesso.
La sporcizia e la spazzatura che – già allora – rendevano Napoli una città sull’orlo del baratro, furono considerate le principali cause della diffusione del colera: insomma, oltre ad esserne le vittime, i napoletani diventarono per tutti la causa prima dello scoppio dell’epidemia. Nonostante – come fu successivamente accertato – le condizioni igienico-sanitarie della città fossero soltanto in parte responsabili della diffusione e del contagio. Il golfo inquinato, le cozze infette, l’incuria diffusa in tutta la città furono i maggiori imputati all’epoca. Pur tuttavia il vibrione della malattia, lungi dall’essere “nostrano”, giunse davvero da molto lontano, in una partita di cozze, si, ma proveniente dalla Tunisia.
Oltre al danno la beffa, verrebbe da dire. Molta della disinformazione che, in quel periodo, fu operata dai giornalisti italiani ha contribuito, infatti, ad alimentare la nascita di stereotipi, oggi considerati aspetti caratterizzanti il popolo napoletano tutto. Non c’è da stupirsi se una delle canzoni da stadio anti-Napoli più popolari sia proprio “Napoli colera” che, pur riferendosi a quella che fu una vera e propria tragedia, diventò l’occasione per denigrare l’intera città; o ancora se, nel perpetuarsi delle periodiche emergenze rifiuti, da più parti d’Italia, tra l’indifferenza e le invettive politiche, siano rispolverate, ancora cinquant’anni dopo, proprio le solite, vecchie storie sui napoletani “brutti, sporchi e cattivi”.
Nessuno volle raccontare che in meno di dieci giorni fu messa in campo ed attuata la più grande campagna di profilassi del tempo, con un milione di vaccinati. Nessuno volle raccontare che Napoli e i suoi cittadini debellarono il colera in meno di venti giorni, mentre Barcellona impiegò addirittura due anni.
Un “giornalismo serio” avrebbe dovuto provare a separare il falso dal vero, ma per il Mezzogiorno d’Italia e per Napoli in particolare, questo assioma non ha mai avuto valore. La città poteva essere sporca, poteva avere un alto tasso di malavita, poteva avere parti della società civile colluse con la delinquenza, ma una epidemia di colera, per di più importata con una partita di “cozze estere” non sarebbe dovuta diventare il pretesto per mettere una intera comunità sotto accusa. Ma per il Sud e per Napoli si tratta di “corsi e ricorsi” storici, che si ripetono ad ogni occasione. Tant’è vero che: si tratti del terremoto dell’Irpinia del 1980 o della frana di Sarno, solo per fare due esempi, per ogni calamità cui non si riesce a dare spiegazione o per la quale non si riesce di trovare dei colpevoli ecco che riparte la “grancassa” dei media sulla incapacità delle comunità meridionali e di essere tutte fatte da un popolo “brutto, sporco e cattivo”.
Cosa resta dopo tanto rumore per niente, il nulla, appunto!
Dr.ssa Sara Di Somma Psicologa clinica, esperta in counseling psicologico per adolescenti e supporto a donne vittime di violenza. Dal 2017 si occupa della conduzione del gruppo esperienziale della squadra di calcio femminile Dream team Arci Scampia e delle attività di supporto psicologico alle donne che si rivolgono al centro antiviolenza presso l’associazione Dream Team – Donne in Rete di Scampia. Ha esperienza nella progettazione sociale e nel lavoro di prevenzione tramite percorsi formativi su tematiche di pari opportunità, stereotipi e violenza di genere. Iscritta all’Ordine degli Psicologi della Regione Campania con il numero 4811 Leggi altri articoli dello stesso autore… |
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