Nell’aprile del 2011 l’Etiopia decise di affrontare il progetto della costruzione di una diga a gravità denominata Grand Ethiopian Renaissance Dam (per brevità GERD) sul Nilo Azzurro, nella regione di Benishangul-Gumez.
Sommario
Attraverso questo maxi progetto di infrastruttura idrica, ad oggi in fase molto avanzata di realizzazione, Addis Abeba avrebbe la capacità di controllare il flusso del Nilo. La costruzione iniziata nel 2013, facilitata dalla Primavera Araba e dai problemi interni del Cairo, quali colpi di stato ed estremismi, è stata dichiarata, nel luglio 2021, all’80% del completamento e si prevede che la diga al termine genererà almeno 6450 MW di potenza, supportata da un lago artificiale di 1874 Km² ed una capacità di 74 miliardi di m³ di acqua.
Il progetto è realizzato sotto la direzione lavori dell’azienda italiana Salini costruttori Spa ed il completamento di questa opera modificherà in maniera radicale il panorama economico regionale, raddoppiando la capacità energetica dell’Etiopia, che da un lato allevierà la grave situazione di povertà del paese e dall’altro ne farà un esportatore di energia, a prezzi competitivi, per tutto il mercato dell’Africa orientale.
GERD: un problema geopolitico tra Etiopia, Sudan ed Egitto.
Le centrali idroelettriche non consumano acqua, ma questa è necessaria per riempire la diga e la velocità con cui ciò accadrà andrà inevitabilmente ad influenzare il flusso a valle. L’Etiopia per la prima volta è riuscita a combinare il potere fisico di essere un paese a monte, posizione che gli permette in un modo o nell’altro di controllare l’andamento del fiume, con il potere economico di essere in grado di costruire una diga, ovviamente grazie al sostegno finanziario cinese. Ecco perché Sudan ed Egitto, paesi a valle del Nilo, sono tanto preoccupati: lo scacchiere geopolitico si è improvvisamente posto a loro sfavore.
Inizialmente il progetto era stato accolto con molto entusiasmo in Sudan: la diga avrebbe permesso di ridurre da 8 metri a 2 la differenza tra acqua alta e bassa del fiume, il flusso idrico sarebbe arrivato tutto l’anno rendendo i più gestibili i progetti di irrigazione. Tale allineamento di posizioni costrinse il neo-presidente egiziano Al Sisi, subito dopo la sua presa di potere nel 2014, a richiedere la ripresa delle discussioni sulla diga e l’impatto che questa avrebbe avuto sulla distribuzione delle acque del Nilo azzurro. Tutto faceva ben sperare. : «at that point that Cairo had adopted “a new vision” concerning the long-running dispute over the Nile and its tributaries, and expressed hope that “the other party responds to it».
Nel marzo del 2015 Al-Sisi, Desalegn e Al-Bashir si riunirono a Khartoum per siglare una dichiarazione di intenti, una serie di buoni propositi sulla gestione del progetto che non avrebbe intaccato il regolare corso del fiume.
I primi entusiasmi, però, lasciarono ben presto spazio ai limiti dell’attuazione pratica. In primis, il trattato si riferiva solo alla costruzione della diga sul Nilo Azzurro e non ad una concomitanza di intenti sulla gestione del fiume Nilo tra stati a monte e a valle. Il trattato non si esprimeva sulla possibilità di un pari accesso, in deroga ai diritti storici e facendo un’involuzione anche rispetto all’accordo del 1999, che prospettava la “water security all’art. 14“. Qualsiasi tentativo di risolvere la controversia facendo appello agli strumenti di diritto internazionale è da allora fallito.
Le diverse interpretazioni degli art 4 e 10 del Trattato di Helsinki del 1966 sugli usi delle acque dei fiumi internazionali, continuano a tutt’oggi, ad impedire il dialogo. Sulla base dell’art 10, la richiesta egiziana è incontrovertibile: sospendere la costruzione della diga, alla luce di ciò che l’Egitto potrebbe subire. Si tratta di rischi ambientali e di sicurezza idrica, ma anche sociali. La risposta etiope non può che essere negativa, anche se ufficialmente la posizione è «the consultants’ findings would be taken into consideration at some unspecified future date».
Il breaking point della questione riguarda il fattore tempo. Quanto tempo impiegherà l’acqua a riempire l’ invaso dell’impianto? Quanta acqua arriverà a valle?
Questo non è ancora chiaro. Se il riempimento dovesse essere celere (3/6 anni), questo incrementerebbe la possibilità di sfruttamento idrico e energetico dell’Etiopia ma non permetterebbe all’acqua di defluire in maniera sufficiente, con una riduzione complessiva del flusso delle acque per i paesi a valle; al contrario un riempimento lento (all’incirca 15 anni) alleggerirebbe la pressione sui paesi downstream, permettendo loro di ridurre le perdite, ma, per l’Etiopia, si sposterebbero molto in avanti nel tempo, i benefici derivanti dalla costruzione della GERD.
Questa questione resta ancor oggi irrisolta, siamo quasi alla conclusione dei lavori, prevista inizialmente nell’ottobre 2018 ma rinviata poi a data da destinarsi. Le intermediazioni di altri attori regionali, quali quelle del Uganda, o internazionali hanno, se possibile, complicato la situazione.
A ben vedere, il fattore geopolitico ha assunto nel frattempo una rilevanza sempre maggiore: sono entrati nella scena nuovi interessi, in primis quelli della Turchia, e vecchie alleanze hanno vacillato riportando in auge tensioni etniche e religiose. Per esempio, più il Sudan si avvicina all’Etiopia, più il Cairo appoggia la causa sud sudanese e ricerca intese con l’Eritrea, ma ciò non fa altro che inasprire le reazioni di Addis Abeba, che accelera i lavori.
Inoltre, agli inizi del 2015 si è concretizzata una nuova intesa tra Sudan e Arabia Saudita, suggellata dall’intervento sudanese in Yemen a sostegno dell’offensiva saudita e dal finanziamento per i progetti agricoli sudanesi da parte del governo di Rhyad. Lo stesso è accaduto nel 2017 con la Turchia: il Presidente Erdogan in dicembre è arrivato a Khartoum formalmente per firmare degli accordi di cooperazione economica. Tra questi però, compare anche la concessione per l’amministrazione dell’isola di Suakin nel Mar Rosso per un periodo di 99 anni. Un tempo, quest’isola era una base navale ottomana e la preoccupazione del Cairo è che Ankara voglia tornare ad avere una base militare permanente nel Mar Rosso. Se consideriamo le altri due basi turche in Somalia e in Qatar, il timore è più che giustificato. Qatar e Turchia sono i principali sostenitori dei Fratelli Musulmani, oppositori del regime egiziano. Il Sudan ha così circondato di nemici l’Egitto.
La contromossa non poteva farsi attendere: nel marzo del 2018, Al-Sisi concede all’Arabia due isolette, Tiran e Sanafir, sul Golfo di Akaba, prima via di accesso d’Israele al Mar Rosso, riaprendo una questione congelata da oltre 20 anni, quella del triangolo di Hala’ib. Essendo una zona al confine, rischia di rimettere in discussione la delimitazione esterna dei due paesi. La situazione è andata precipitando: da una parte portaelicotteri egiziani nel Mar Rosso e truppe dell’esercito negli Emirati Arabi Uniti, dall’altra migliaia di unità militari sudanesi al confine con l’Eritrea, che richiamano in causa l’Etiopia. Così anche il tentativo di arbitrato della Banca Mondiale, promosso dall’Egitto per sbloccare l’impasse, viene invalidato.
Tutti grattacapi per Washington, costretta ad assistere ad un’escalation di tensioni tra i suoi partner mediorientali, che “potrebbe stuzzicare gli appetiti” della Russia. I tre leader, sotto l’auspicio dell’intera comunità internazionale, avevano gettato le basi per una nuova trattativa di accordo. Ciò nonostante, il successivo incontro per l’implementazione della cooperazione, previsto per aprile 2018, fu disertato dalle autorità etiopi e sudanesi. Entro il 5 maggio 2019 le consultazioni avrebbero dovuto aver luogo, per rispettare la timeline decisa ad Addis Abeba in febbraio, ma le differenti interpretazioni circa il report preliminare degli studi di impatto ambientali rallentarono nuovamente il dialogo.
Al 18° round del 15 maggio 2018, il Comitato Ministeriale della GERD (la Grande Diga Etiopica della Rinascita), formato dai ministri dell’Irrigazione, degli Esteri e dai capi dei servizi di intelligence di Etiopia, Sudan ed Egitto, raggiunse, dopo 15 ore di trattative, un accordo che riguardava l’incarico per uno studio sul riempimento dell’invaso. In base a tale intesa, si prevedeva la formazione di un comitato scientifico, formato da ricercatori indipendenti delle università dei tre paesi, con il compito di coordinare le operazioni di riempimento. La nuova timeline prevedeva che il lavoro doveva concludersi entro sei mesi. Inoltre, fu stato deciso che il Comitato Ministeriale si sarebbe riunito a cadenza semestrale e a rotazione nei tre paesi, per favorire la cooperazione in altri settori ritenuti di interesse preminente.
Il 3 luglio dello stesso anno, al Cairo, si tenne il nuovo vertice trilaterale, ma nuovamente la questione della diga fu sorvolata e non ci sono stati progressi tangibili nei negoziati. Il gruppo di studio scientifico avrebbe dovuto discutere gli scenari relativi alle regole di riempimento della diga in conformità con il principio di un utilizzo equo e ragionevole dell’acqua condivisa, adottando nel contempo tutte le misure appropriate per impedire “la causa di un danno significativo“, così come previsto dalla dichiarazione dei principi firmata dai tre stati nel 2015. Il gruppo, da allora, ha tenuto altri due incontri a porte chiuse, ma altri sette ne sono concordati prima di riferire i risultati ai ministri dell’irrigazione dei tre paesi entro il 15 agosto 2019.
Nel frattempo, il 29 luglio 2019 si sono celebrati con funzione pubblica i funerali di Simegnew Bekele, capo ingegnere del mega progetto idrico. L’uomo è stato ritrovato morto con un colpo di pistola alla tempia, per il momento non sono state formulate ipotesi, ma si spera che questo non si traduca in un ulteriore motivo per ritardare i colloqui, con nuovo scambio di accuse che alimenti le tensioni.
Nonostante le situazioni di difficoltà e di violenza più o meno gravi, tra i paesi coinvolti, i tempi di completamento della diga si fanno sempre più stringenti, una soluzione rapida, soddisfacente ed indolore per tutte le parti coinvolte resta improbabile.
Redazione La napoletanità è uno stato dell’anima, un modo di intendere la vita, di ricordare, di amare, un’attitudine allo stare al mondo in modo diverso dagli altri. La napoletanità non è un pregio e non è un difetto: è essere “diversi” dagli altri, in tutto. Ecco noi ci sentiamo così. (definizione liberamente tratta da uno scritto di: Valentino Di Giacomo napoletano, classe 1982, redattore del quotidiano Il Mattino di Napoli) Leggi altri articoli dello stesso autore… |
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