Quanta potenza si può sprigionare da un incontro fortuito? Noi giovani del terzo millennio siamo vittime della spettacolarizzazione cinematografica. Tutto ciò che non avviene in maniera eclatante non lo prendiamo nemmeno in considerazione. Eppure, a volte, le collisioni più feconde avvengono in maniera del tutto casuale, e in sordina, in silenzio e senza fare rumore, come l’acqua che scorre nel sottosuolo per poi sgorgare, esplosiva e inattesa, nei potenti getti di vapore del geyser.
Carlo Lorenzini, alias Carlo Collodi, incontra la letteratura a diciassette anni, quando va a lavorare come commesso nella libreria Piatti di Firenze, probabilmente per guadagnarsi qualche soldo da spendere in bagordi. Non ne resta subito infatuato; ci mette un po’ ad accorgersi di lei. I suoi genitori, madre cameriera e padre cuoco nella ricca famiglia fiorentina dei Ginori, non navigano nell’oro.
Nato a Firenze nel 1926, il piccolo Carlo cresce con la spada di Damocle della morte dei fratelli (su dieci figli, sei morirono in tenera età) sulla testa, e dentro (la testa) un irruento desiderio di fuga e affrancamento da una società che sembra andargli troppo stretta. Per sedare le sue bizze i genitori decidono di avviarlo agli studi ecclesiastici presso il seminario di Val d’Elsa e poi dai padri Scolopi di Firenze.
La tendenza all’insubordinazione, la vivacità grandiosa della mente e il bisogno di ampi spazi lo spingono, nel 1848, ad abbracciare le idee mazziniane e partecipare alle rivolte risorgimentali. Ma l’unità d’Italia, una volta ottenuta, si rivela un’autentica, bruciante delusione. Sono anni difficili, di stridori, di cambiamenti che lasciarono insoddisfatti molti intellettuali dell’epoca. Carlo Collodi era tra questi. Fine osservatore dallo spirito acuto, dall’animo sensibile e dal temperamento ribelle, nasconde, dietro l’apparenza da eterno monello, una natura contrastata. La frustrazione per aver lottato per ottenere un’unificazione italiana che, una volta concretizzatasi, non dimostra di dare i risultati sperati, si tramuta in intolleranza nei confronti del mondo esterno. Ed è qui che la letteratura, incontrata tanti anni prima nella libreria in cui lavorò all’inizio come commesso e poi come direttore, gli viene in soccorso. L’unico modo per evadere da una realtà che si rivela non all’altezza delle aspettative è quello di rifugiarsi in un mondo inventato. La letteratura sceglie la forma più fantasiosa e magica, quella della favola, per donarsi a Carlo Collodi.
Nel 1875 inizia a tradurre, per l’editore Felice Paggi, le celebri fiabe di Perrault, inserendovi anche una morale. Intanto, l’attività giornalistica iniziata come cronista ha già dato i suoi frutti: nel 1853 Carlo aveva fondato il periodico di critica teatrale Scaramuccia, e i suoi schizzetti satirici dei personaggi tipici della Firenze degli anni Cinquanta del 1800 l’avevano reso una firma celebre nell’ambiente (è in quel periodo che acquisisce lo pseudonimo di Collodi, ispirato al paese di nascita della madre), nonché un punto di riferimento dell’avanguardia linguistica, per la sua abilità a creare neologismi: nel 1868, su invito del Ministero dell’Istruzione redasse insieme ad altri studiosi un dizionario della lingua fiorentina parlata, e il suo “Pinocchio” contribuì a diffondere l’italiano colloquiale in tutto il territorio nazionale.
Nel 1881 arriva appunto il primo capitolo de “Le avventure di Pinocchio”, che uscirà a puntate sul Giornale dei bambini, primo periodico per ragazzi diretto da Fernandino Martini, con il titolo “Storia di un burattino”. Qui confluiscono, in quella che si può considerare un’opera omnia, tutti i nervi della stratificata personalità di Collodi: Pinocchio, personaggio ribelle e imprudente, allo stesso tempo schiavo della sua condizione di burattino eppure libero dall’intoppo tutto umano della coscienza, è alterego dell’autore che, nelle vicissitudini dell’aspirante bambino proietta, con un effetto che si può definire catartico, la sua stessa gioia di vivere, quella gioia irruenta che fu stroncata dalla disillusione di tutte le aspettative. Un triste epilogo che, se i piccoli lettori del giornale non avessero protestato, avrebbe visto la morte per impiccagione del protagonista. Una fine tutto sommato più dignitosa rispetto all’essere costretto a fare “il bravo bambino” per essere bene accetto in un mondo che, diciamolo, né a Pinocchio né a Carlo sembra essere mai andato troppo a genio. E se a Pinocchio resta, invece, la consolazione del lieto fine, a Collodi rimane l’amore per la fiaba, tardiva amante che con le sue sapienti carezze lo salvò dalle brutture del mondo.
Giuliana Gugliotti Paolo Maurensig ha scritto: “Sono solo un appassionato, un melomane. La musica è la mia consolazione. Quest’arte […] assomiglia all’idea che mi sono fatto della vita”. Sostituite la parola “letteratura” alla parola “musica” e avrete una esaustiva descrizione di me. Leggi altri articoli dello stesso autore… |
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